giovedì 7 agosto 2008
Rito Ambrosiano: la centralità dell'opera di Sant'Ambrogio per la Chiesa di Milano
Papa Gregorio Magno in una lettera al clero di Milano del settembre dell’anno 600, confermando l’elezione del nuovo Vescovo appena avvenuta, lo definiva significativamente non tanto come successore, bensì come vicario di sant’Ambrogio. Veniva così in un certo senso rimarcata, proprio dall’autorità del pontefice romano, quella connessione strettissima tra la Chiesa di Milano e il suo patrono, quasi che fosse sempre lui, Ambrogio, a reggere il governo pastorale del suo popolo attraverso dei Vescovi che gli sarebbero succeduti lungo i secoli.
E sarà ancora un altro Papa, Giovanni VIII, in una lettera dell’881, a definire per la prima volta " ambrosiana" la Chiesa di Milano, mettendo così le premesse per quel processo di pratica identificazione (cosa forse più unica che rara nella storia civile ed ecclesiastica) tra l’aggettivo che deriva dal nome della città (milanese) e quello che deriva dal nome del patrono (ambrosiano, appunto).Segno che la storia della città e della Chiesa di Milano era percepita come profondamente segnata dall’opera di Ambrogio e dalla sua presenza nei Vescovi suoi successori.In effetti l’episcopato di Ambrogio (374-397) si può giustamente ritenere fondativo rispetto alla successiva storia della Chiesa milanese; ma è per altro significativo che Ambrogio stesso, considerando quasi una parentesi i lunghi anni in cui la cattedra milanese fu occupata, o meglio usurpata, dall’eretico ariano Aussenzio suo immediato predecessore, volle riagganciare esplicitamente la propria opera pastorale a quella dell’ultimo vero Vescovo cattolico che lo aveva preceduto, quel santo vescovo Dionigi, perseguitato per la sua fede incrollabile nella divinità di Cristo, coraggioso difensore della retta dottrina, zelante pastore del suo gregge, “quasi martire” proprio perché morto esule in Armenia a causa dell’intolleranza imperiale filoariana, e che ora potremmo chiamare “primo” di questo nome dopo la nomina dell’ultimo dei successori – o, come direbbe Gregorio Magno, dei vicari – di Ambrogio.Da Dionigi e dagli altri santi Vescovi a lui precedenti Ambrogio raccolse quella che lui stesso definisce una preziosa “eredità”, la Chiesa milanese; a sua volta egli portò a maturazione questa eredità, conferendole un’anima, un’impronta, una qualità che di lì in avanti l’avrebbe per sempre contraddistinta: l’ambrosianità. Essa potrebbe essere così delineata per sommi capi proprio a partire dall’opera pastorale di Ambrogio: l’edificazione del popolo di Dio attraverso la predicazione della Parola coniugata alla solida dottrina della Chiesa; l’assidua celebrazione dei sacramenti come occasione in cui incontrare (o meglio, “abbracciare”) Cristo vivo e presente nella celebrazione liturgica; l’attenzione sempre attualissima ai problemi della giustizia sociale che si fa carità e condivisione; l'accoglienza verso le persone provenienti da popoli lontani a quei tempi considerati barbari senza venir meno al dovere di una evangelizzazione nel contempo discreta e chiara; la cura personale da parte del Vescovo nella formazione del clero come condizione previa di ogni azione pastorale; la difesa coraggiosa e tenace della libertà della Chiesa e della sue prerogative contro le ingerenze di un potere statale autocratico e tendenzialmente assolutista; la chiara e per nulla affatto accomodante denuncia degli errori che inquinano la vita civile, chiunque li avesse commessi, fosse pure lo stesso imperatore. Sono queste le linee pastorali che a partire da Ambrogio attraversano, lungo i secoli, l’intera storia della Chiesa milanese e trovano nell’opera di numerosi santi Vescovi applicazioni sempre nuove e geniali.Potremmo citare solo qualche esempio tra i più significativi. San Galdino, Arcivescovo nel XII secolo, si rivelò vero “ defensor civitatis”, anzi ricostruttore di Milano dopo la distruzione della città da parte delle truppe imperiali di Federico Barbarossa; ma insieme fu anche “pater pauperum”, padre dei poveri, attraverso opere concrete di carità e di assistenza verso i più bisognosi in simili frangenti; e infine fu anche indefesso predicatore della Parola di Dio e della dottrina della Chiesa contro gli errori del tempo, morto emblematicamente sul pulpito della cattedrale mentre stava parlando al popolo.Per tutto questo Galdino fu scelto dai Milanesi come compatrono della Diocesi insieme ad Ambrogio, fino a quando un altro santo vescovo, con la sua opera gigantesca, ne oscurò un poco la memoria e ne “scippò” quasi il ruolo, tanto da associare in maniera indelebile il proprio nome a quello del patrono: e così la Chiesa di sant’Ambrogio divenne la Chiesa dei santi Ambrogio e Carlo.In effetti l’episcopato di Carlo Borromeo (1560-1584) fu per così dire una “rifondazione” della Chiesa ambrosiana: basti pensare che la sua opera pastorale, metodica, estesa e capillare, venne assunta come paradigmatica in tutta l’Europa cattolica post-tridentina e san Carlo stesso divenne l’incarnazione della figura ideale del Vescovo, letteralmente e fisicamente consumato dallo zelo per la salvezza delle anime, dall’ascesi personale rigorosa, dalla preghiera capace di giungere fino alle altezze mistiche e dall’attività capace di giungere fino allo sfinimento. Fino alla morte.La secolare tradizione che da san Dionigi I e da sant’Ambrogio, passando attraverso san Galdino e san Carlo, è giunta fino all’epoca moderna, ha trovato nel XX secolo altri due “santi” Arcivescovi che in maniera originale e personale hanno arricchito e rivissuto tale “ambrosianità”: i beati cardinali Andrea Carlo Ferrari e Alfredo Ildefonso Schuster. Il primo coniugando il proprio ministero pastorale in un intelligente dialogo con i problemi imposti dai nuovi tempi; il secondo proponendosi come “icona” vivente del primato della preghiera e della contemplazione quale fondamento della sua pur feconda attività apostolica.Ecco delineata per sommi capi la storia della Chiesa Ambrosiana attraverso i più celebri tra i suoi Vescovi santi: ma altri nomi potremmo citare per completare un quadro che dal protovescovo sant’Anatalo, di origine greca, del secolo III, giunge oggi fino all’arcivescovo Dionigi, “secondo” di questo nome.Lungo questa storia millenaria, ovviamente, molte cose sono cambiate dal punto di vista ecclesiastico, civile e politico.Sul territorio della Chiesa Ambrosiana, all’epoca di Anatalo, Dionigi I e Ambrogio, governava l’impero romano. Poi si susseguirono i Goti, i Bizantini, i Longobardi, i Franchi, l’impero medioevale, i Francesi, gli Spagnoli, due volte gli Asburgo, i Piemontesi e l’unificazione nel Regno d’Italia, fino alle vicende dei nostri giorni. Le istituzioni politiche sono state macinate dal mutare dei tempi, mentre la Chiesa di Milano è rimasta, con la sua ambrosianità, a dare continuità a quella porzione del popolo di Dio retta dai “vicari” di Ambrogio che via via si sono succeduti.E non è senza significato che tra i tesori lasciatici in eredità dai Padri, immutato sia rimasto anche il rito liturgico per l’appunto chiamato “ambrosiano”: quella particolare modalità, originale per molti aspetti nell’ambito delle liturgie latine, con la quale la Chiesa di Milano celebra e rivive il mistero di salvezza. Molte particolarità del rito ambrosiano risalgono proprio ad Ambrogio e ancor oggi, dopo milleseicento anni, si sono fedelmente conservate; altre si sono affermate e stabilizzate in epoca carolingia (IX secolo) nel confronto dialettico e complementare con la liturgia romana; una profonda revisione fu dovuta a san Carlo nell’ambito della riforma tridentina; e ai nostri tempi la liturgia ambrosiana si è rinnovata secondo lo spirito del Concilio Vaticano II grazie all’opera illuminata di Paolo VI che da Arcivescovo di Milano ne apprezzò le peculiarità e la spiritualità sottesa, e degli altri due arcivescovi, i cardinali Giovanni Colombo e Carlo Maria Martini, con le nuove edizioni del Messale e della Liturgia delle Ore da loro promulgate. Ma c’è un ultimo particolare da sottolineare a questo proposito.L’Arcivescovo di Milano gode – unico forse in Occidente, ad eccezione del pontefice romano – della qualifica di Capo-Rito: del rito ambrosiano è cioè custode, tutore e promotore, ma soprattutto ne è il “liturgo” per eccellenza.In tutti gli antichi manoscritti liturgici ambrosiani infatti non è senza significato che i testi prevedano sempre che sia l’Arcivescovo a presiedere la celebrazione, come se fosse in cattedrale, anche quando il libro liturgico era stato scritto per una chiesa plebana lontana dalla città e dove normalmente sono i presbiteri a celebrare. Viene messa così in evidenza quella comunione ecclesiale che lega il Vescovo al suo presbiterio proprio nell’azione litur gica, e che lega alla cattedrale, come chiesa-madre dove celebra il vescovo, ogni chiesa dell’intera Diocesi, dove i presbiteri celebrano secondo quel rito, antico ma sempre vivo, che da sant’Ambrogio è giunto fino a noi.
Don Marco Navoni,
Dottore della Biblioteca Ambrosiana
(originariamente pubblicato su «L’Osservatore Romano», 29 settembre 2002)
http://www.chiesadimilano.it/or4/or?uid=ADMIesy.main.index&oid=7496
E sarà ancora un altro Papa, Giovanni VIII, in una lettera dell’881, a definire per la prima volta " ambrosiana" la Chiesa di Milano, mettendo così le premesse per quel processo di pratica identificazione (cosa forse più unica che rara nella storia civile ed ecclesiastica) tra l’aggettivo che deriva dal nome della città (milanese) e quello che deriva dal nome del patrono (ambrosiano, appunto).Segno che la storia della città e della Chiesa di Milano era percepita come profondamente segnata dall’opera di Ambrogio e dalla sua presenza nei Vescovi suoi successori.In effetti l’episcopato di Ambrogio (374-397) si può giustamente ritenere fondativo rispetto alla successiva storia della Chiesa milanese; ma è per altro significativo che Ambrogio stesso, considerando quasi una parentesi i lunghi anni in cui la cattedra milanese fu occupata, o meglio usurpata, dall’eretico ariano Aussenzio suo immediato predecessore, volle riagganciare esplicitamente la propria opera pastorale a quella dell’ultimo vero Vescovo cattolico che lo aveva preceduto, quel santo vescovo Dionigi, perseguitato per la sua fede incrollabile nella divinità di Cristo, coraggioso difensore della retta dottrina, zelante pastore del suo gregge, “quasi martire” proprio perché morto esule in Armenia a causa dell’intolleranza imperiale filoariana, e che ora potremmo chiamare “primo” di questo nome dopo la nomina dell’ultimo dei successori – o, come direbbe Gregorio Magno, dei vicari – di Ambrogio.Da Dionigi e dagli altri santi Vescovi a lui precedenti Ambrogio raccolse quella che lui stesso definisce una preziosa “eredità”, la Chiesa milanese; a sua volta egli portò a maturazione questa eredità, conferendole un’anima, un’impronta, una qualità che di lì in avanti l’avrebbe per sempre contraddistinta: l’ambrosianità. Essa potrebbe essere così delineata per sommi capi proprio a partire dall’opera pastorale di Ambrogio: l’edificazione del popolo di Dio attraverso la predicazione della Parola coniugata alla solida dottrina della Chiesa; l’assidua celebrazione dei sacramenti come occasione in cui incontrare (o meglio, “abbracciare”) Cristo vivo e presente nella celebrazione liturgica; l’attenzione sempre attualissima ai problemi della giustizia sociale che si fa carità e condivisione; l'accoglienza verso le persone provenienti da popoli lontani a quei tempi considerati barbari senza venir meno al dovere di una evangelizzazione nel contempo discreta e chiara; la cura personale da parte del Vescovo nella formazione del clero come condizione previa di ogni azione pastorale; la difesa coraggiosa e tenace della libertà della Chiesa e della sue prerogative contro le ingerenze di un potere statale autocratico e tendenzialmente assolutista; la chiara e per nulla affatto accomodante denuncia degli errori che inquinano la vita civile, chiunque li avesse commessi, fosse pure lo stesso imperatore. Sono queste le linee pastorali che a partire da Ambrogio attraversano, lungo i secoli, l’intera storia della Chiesa milanese e trovano nell’opera di numerosi santi Vescovi applicazioni sempre nuove e geniali.Potremmo citare solo qualche esempio tra i più significativi. San Galdino, Arcivescovo nel XII secolo, si rivelò vero “ defensor civitatis”, anzi ricostruttore di Milano dopo la distruzione della città da parte delle truppe imperiali di Federico Barbarossa; ma insieme fu anche “pater pauperum”, padre dei poveri, attraverso opere concrete di carità e di assistenza verso i più bisognosi in simili frangenti; e infine fu anche indefesso predicatore della Parola di Dio e della dottrina della Chiesa contro gli errori del tempo, morto emblematicamente sul pulpito della cattedrale mentre stava parlando al popolo.Per tutto questo Galdino fu scelto dai Milanesi come compatrono della Diocesi insieme ad Ambrogio, fino a quando un altro santo vescovo, con la sua opera gigantesca, ne oscurò un poco la memoria e ne “scippò” quasi il ruolo, tanto da associare in maniera indelebile il proprio nome a quello del patrono: e così la Chiesa di sant’Ambrogio divenne la Chiesa dei santi Ambrogio e Carlo.In effetti l’episcopato di Carlo Borromeo (1560-1584) fu per così dire una “rifondazione” della Chiesa ambrosiana: basti pensare che la sua opera pastorale, metodica, estesa e capillare, venne assunta come paradigmatica in tutta l’Europa cattolica post-tridentina e san Carlo stesso divenne l’incarnazione della figura ideale del Vescovo, letteralmente e fisicamente consumato dallo zelo per la salvezza delle anime, dall’ascesi personale rigorosa, dalla preghiera capace di giungere fino alle altezze mistiche e dall’attività capace di giungere fino allo sfinimento. Fino alla morte.La secolare tradizione che da san Dionigi I e da sant’Ambrogio, passando attraverso san Galdino e san Carlo, è giunta fino all’epoca moderna, ha trovato nel XX secolo altri due “santi” Arcivescovi che in maniera originale e personale hanno arricchito e rivissuto tale “ambrosianità”: i beati cardinali Andrea Carlo Ferrari e Alfredo Ildefonso Schuster. Il primo coniugando il proprio ministero pastorale in un intelligente dialogo con i problemi imposti dai nuovi tempi; il secondo proponendosi come “icona” vivente del primato della preghiera e della contemplazione quale fondamento della sua pur feconda attività apostolica.Ecco delineata per sommi capi la storia della Chiesa Ambrosiana attraverso i più celebri tra i suoi Vescovi santi: ma altri nomi potremmo citare per completare un quadro che dal protovescovo sant’Anatalo, di origine greca, del secolo III, giunge oggi fino all’arcivescovo Dionigi, “secondo” di questo nome.Lungo questa storia millenaria, ovviamente, molte cose sono cambiate dal punto di vista ecclesiastico, civile e politico.Sul territorio della Chiesa Ambrosiana, all’epoca di Anatalo, Dionigi I e Ambrogio, governava l’impero romano. Poi si susseguirono i Goti, i Bizantini, i Longobardi, i Franchi, l’impero medioevale, i Francesi, gli Spagnoli, due volte gli Asburgo, i Piemontesi e l’unificazione nel Regno d’Italia, fino alle vicende dei nostri giorni. Le istituzioni politiche sono state macinate dal mutare dei tempi, mentre la Chiesa di Milano è rimasta, con la sua ambrosianità, a dare continuità a quella porzione del popolo di Dio retta dai “vicari” di Ambrogio che via via si sono succeduti.E non è senza significato che tra i tesori lasciatici in eredità dai Padri, immutato sia rimasto anche il rito liturgico per l’appunto chiamato “ambrosiano”: quella particolare modalità, originale per molti aspetti nell’ambito delle liturgie latine, con la quale la Chiesa di Milano celebra e rivive il mistero di salvezza. Molte particolarità del rito ambrosiano risalgono proprio ad Ambrogio e ancor oggi, dopo milleseicento anni, si sono fedelmente conservate; altre si sono affermate e stabilizzate in epoca carolingia (IX secolo) nel confronto dialettico e complementare con la liturgia romana; una profonda revisione fu dovuta a san Carlo nell’ambito della riforma tridentina; e ai nostri tempi la liturgia ambrosiana si è rinnovata secondo lo spirito del Concilio Vaticano II grazie all’opera illuminata di Paolo VI che da Arcivescovo di Milano ne apprezzò le peculiarità e la spiritualità sottesa, e degli altri due arcivescovi, i cardinali Giovanni Colombo e Carlo Maria Martini, con le nuove edizioni del Messale e della Liturgia delle Ore da loro promulgate. Ma c’è un ultimo particolare da sottolineare a questo proposito.L’Arcivescovo di Milano gode – unico forse in Occidente, ad eccezione del pontefice romano – della qualifica di Capo-Rito: del rito ambrosiano è cioè custode, tutore e promotore, ma soprattutto ne è il “liturgo” per eccellenza.In tutti gli antichi manoscritti liturgici ambrosiani infatti non è senza significato che i testi prevedano sempre che sia l’Arcivescovo a presiedere la celebrazione, come se fosse in cattedrale, anche quando il libro liturgico era stato scritto per una chiesa plebana lontana dalla città e dove normalmente sono i presbiteri a celebrare. Viene messa così in evidenza quella comunione ecclesiale che lega il Vescovo al suo presbiterio proprio nell’azione litur gica, e che lega alla cattedrale, come chiesa-madre dove celebra il vescovo, ogni chiesa dell’intera Diocesi, dove i presbiteri celebrano secondo quel rito, antico ma sempre vivo, che da sant’Ambrogio è giunto fino a noi.
Don Marco Navoni,
Dottore della Biblioteca Ambrosiana
(originariamente pubblicato su «L’Osservatore Romano», 29 settembre 2002)
http://www.chiesadimilano.it/or4/or?uid=ADMIesy.main.index&oid=7496
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